Come capire e sviluppare il retail in Asia: molte testimonianze a Palazzo delle Stelline

Dec 25, 2019

l retail in Asia continua la sua crescita a doppia cifra, restando il mercato più ambito per off-line e on-line, ormai orientato verso strategie omnichannel sempre più sofisticate e competitive. Con esse si alzano le barriere di entrata al mercato, lo dimostrano il contributo di oltre il 40% dell'Asia alla crescita degli investimenti pubblicitari mondiali, e il dato ancora più eclatante che il 50% degli investimenti in pubblicità in Asia è nel digitale. La Cina vanta uno dei tassi piu alti di pubblicità digitale per cellulari, arrivata al 75% del totale del comparto, uno specchio del consumatore cinese di oggi e della complessità delle sue abitudini di consumo.
Con questi presupposti, il 12 novembre si è svolto nella Sala Volta del Palazzo delle Stelline a Milano il secondo incontro “Retail in Asia Conference 2019”, organizzato da Texere Advisors in collaborazione con Algebra, Bernardi Studio legale, NABA, Emlyon Business School e AICE. L’incontro ha nel suo punto forte l’avere la testimonianza diretta senza filtri di imprenditori asiatici che operano su quei mercati estremamente competitivi e dinamici.

Infatti, Michel Phan, professore di marketing del lusso della Emlyon Business School di Lione, ha ricordato come l’Asia sia forse diventato il mercato più difficile da affrontare, perché in continua evoluzione e perché i consumatori locali sono giovani e molto tecnologici e quindi portati a subire molte influenze dai social network, tanto che l’online shopping prevale su quello fisico in Cina. Secondo Phan, comunque, l’esperienza in negozio è fondamentale per “educare” il consumatore cinese ai valori dei marchi europei. Inoltre, l’estesa conoscenza del prodotto e l’importanza di un ritorno alle basi della customer experience sono punti fondamentali che devono rispettare i retailer occidentali.

Secondo il professore, i marchi dovrebbero concentrare energie e investimenti nel formare alla perfezione il personale e nello stabilire incentivi basati sull’eccellenza del supporto al cliente, soprattutto visto che secondo uno studio di Bain Consulting nel 2025 circa il 45% di tutti i consumatori mondiali di lusso sarà cinese. Interessante un suo esempio: nei negozi occidentali di alto livello ai clienti cinesi viene subito offerto un bicchiere d’acqua fresca o uno di champagne quando entrano. Invece i cinesi preferirebbero il contrario: un bicchiere di acqua calda. Questo fatto si sta comprendendo sempre più, come nel flagship di Chanel a Parigi.

Marianna Potocco, brand manager e quinta generazione della centenaria azienda familiare di arredamenti Potocco si è soffermata sugli ostacoli culturali e le generali difficoltà riscontrate dai brand medio-piccoli italiani che operano in Asia. Secondo lei, visitare i mercati dell’Estremo Oriente in modo da capire al meglio le divergenze culturali (in Cina, per esempio, negli arredi il bianco è bandito, perché il colore associato alla morte, e non sono amati gli specchi) e individuare eventuali modifiche da effettuare al prodotto in base alle peculiarità del mercato sono operazioni fondamentali di questi tempi.

“Per esempio noi abbiamo trovato un partner a Singapore per avere un punto d’appoggio e dare un servizio al cliente finale potendo rispondergli in modo immediato. Non solo: bisogna studiare come vengono presenti i prodotti, come porsi verso il cliente”, ha aggiunto la Potocco. “Noi aziende italiane dobbiamo investire nell’Estremo Oriente, ma soprattutto curare le relazioni con i clienti locali. In Europa quando viene organizzato un appuntamento si chiede subito ‘Quanti minuti durerà?’, invece in Cina potrebbe durare anche un pomeriggio intero, perché loro danno grande importanza a questi rapporti. Consigli? Investite in traduttori: è fondamentale per parlare con gli staff e poter trasmettere loro (che lo faranno poi ai clienti) i dettagli dei prodotti e quanta passione hanno alle spalle. Bisogna anche studiare su come comunicare sui social media locali, perché è facile fare sell-in, ma per noi la cosa più importante è il sell-out”.

Sia Qihui Huang, General Manager dell’azienda cinese QQODD, che Frederick Yuson, CEO della filippina CWC, hanno poi ribadito la rapida evoluzione del consumatore asiatico e l’importanza di un approccio strategico per ogni mercato. Secondo i relatori asiatici, l’Asia sta aumentando la domanda per i prodotti del Made in Italy di alta qualità e richiede l’originalità del prodotto e una notevole storia del marchio, confermando il problema delle barriere linguistiche, tuttora non indifferenti.

L’avvocatessa Paola Bernardi, dello Studio Bernardi, ha invece esposto la nuova “Foreign Investment Law” della Cina, una dichiarazione di principio fondamentale di equiparazione delle società ad investimento straniero rispetto a quelle ad investimento interamente locale, che comporta un’interessante semplificazione delle procedure burocratiche di costituzione delle società. “Un bel passo avanti”, lo ha definito la Bernardi. Questo nuovo approccio di Pechino ha anche avuto un risvolto interessante sulla tutela dei brand, come esempio, nella lotta contro gli “squatter” dei marchi, quegli agenti cinesi che registrano a proprio nome i marchi internazionali in Cina, creando problemi impensabili di coordinamento della comunicazione tra la Cina, dove il marchio risulta inutilizzabile. “Ora, partendo per tempo con le necessarie registrazioni dei modelli e dei design si può fare davvero qualcosa contro i contraffattori. E poi bisogna regolare bene il rapporto di distribuzione in loco con un contratto ben fatto”, ha consigliato la legale.

A seguire, Nicoletta Morozzi, Fashion Scientific Advisor della scuola di moda NABA, ha parlato del considerare gli aspetti culturali e sociali diversi da nazione a nazione, l’atteggiamento emotivo e i rapporti che si creano tra chi acquista e chi vende, mostrando quanto il proliferare di catene di negozi con nome d’ispirazione italiana testimoni l’appeal che i nostri prodotti, cultura e stile di vita hanno su quel pubblico. Ha parlato di giovani cinesi sempre alla ricerca di esperienze e riferimenti che diano loro l’impressione di trovarsi in una strada di Milano o di Parigi, provocando una maggiore consapevolezza della qualità dei prodotti, insieme a una esperienza d'ibridazione con le nazioni con cui hanno uno scambio culturale molto importante.

Infine, l’AD di Boggi Milano, Paolo Selva ha ricordato l’importanza della location per i brand e i pro e contro dell’entrare direttamente in un mercato straniero. L’avventura di Boggi è stata molto positiva in Asia, dove il brand da 200 milioni di euro di giro d’affari conta 10 punti vendita tra Singapore, Hong Kong, Macao e Malesia, operati direttamente. “La nostra scelta è partita nel 2012. Dopo aver consolidato bene il mercato europeo cercavamo altri mercati in cui espanderci”, ha raccontato Selva. “All’inizio pensammo agli Stati Uniti, poi la scelta è caduta sull’Asia, anche per una serie di valori condivisi: la famiglia, l’imprenditorialità, l’appetito per il gusto europeo. Partimmo da Hong Kong, con un flagship che fungesse da vetrina per tutto il mercato asiatico, e passo dopo passo abbiamo saputo costruire nel continente una crescita solida. Strategie importanti sono state il tenere elevata la brand identity, il mantenere l’esperienza d’acquisto negli store Boggi locali identica a quella che si può trovare negli altri nostri punti vendita, e in seguito pensare allo sviluppo di franchising/service agreement/joint venture”.
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